mercoledì 8 dicembre 2010

Simone Corami: Open Brand - La sfida del NarrowMarketing e le identità economiche Bottom Up


Una Rivoluzione, né un media, né un canale

Internet non è un media, non è un linguaggio e non è molto altre cose. Ma è anche tutte queste insieme. E' una rivoluzione con dimensione profonde: sociali, culturali, psicologiche e antropologiche. Ed economiche. Viviamo sulla soglia del cambio di un paradigma molto profondo, dove l'attenzione del mondo si rivolge sempre di più alla rete. Nel bene e nel male. Perchè anche i forti conservatorismi stanno puntanto sul mutamento tecnologico in atto. In realtà la sola dimensione tecnologica non riesce a spiegare questo enorme cambiamento, in atto ma ancora ben lontano dall'essere concluso.
Fondamentalmente l'attore principale di questa rivoluzione, di cui il web 2.0 è un passaggio obbligato, ma non conclusivo, è un noi. Una collettività non ordinata ma coordinata, che non si rifà alla massa come negli scenari dell'epoca televisiva, bensì ad un insieme di nodi, singolirità, gruppi, che si relazionano insieme per scambiare e condividere esperienze e creatività.
Naturalmente anche l'economia è coinvolta da questo fenomeno, il termine sharing è fortemente economico. Si finanziano startup, si scomette sulle idee, si ragiona sulla sostenibilità dei business online. Ne consegue che il marketing è estremamente rinnovato nella sue parte dedicata ai social media, ma anche in quella più tradizionale. A mio avviso però il convolgimento economico non è così innovativo come certe indicazioni sembrano rappresentare, la bolla della new-economy ne è stata una dimostrazione. Con la fine del secolo precedente siamo usciti dalla dicontomia capitalismo-socialismo, anche se si assiste ad un fenomeno di ritorno di alcune idee di comunitarismo, accelerate nella loro diffusione dalla grande crisi finanziaria. Però la maggior parte delle aziende ragionano ancora nell'ottica del capitale nella maniera più classica del termine. Nonostante le aperture all'innovazione, che non riguardano la qualità e la validità dei processi di produzione e sostenibilità, ma bensì gli strumenti che fanno aumentare il saggio di profitto, aspirazione più che legittima, sembriamo ancora chiusi in quell'antinomia.

Una strada obbligata

Eppure la strada è segnata, obbligata. Il marketing ha capito prima di tutti che l'utente è cambiato, tanto da abbandonare, almeno in pubblico, il termine consumatore. Non si tratta di puro nominalismo. Gli utenti sono più attenti e soprattutto vogliono essere parte attiva nei processi di costruzione delle identità aziendali e dei prodotti stessi. Se è vero che le aziende si orientano al mondo social e UGC, presto questa moltitudine reclamerà un diritto fondamentale: la sua sostenibilità. Non è solo una questione di remunerazione del lavoro creativo, ma di conciliare il brand, la sua awareness ed equity, la online reputation con le aspettative degli utenti. Non basterà sviluppare CRM in grado di dialogare sempre meglio, ma rispondere a determinate esigenze, standard di qualità e di responsabilità sociale di impresa. Ci saranno resistenze forti, ma gli utenti chiederanno sempre di più la partecipazione nei processi di scelta. Non basterà scrivere le user experiences, ma si dovra andare oltre. Il processo di costruzione di un brand dovrà diventare bottom up, dovrà venire dal basso. Le ricadute saranno pesanti. E le resistenze anche. Ma pensate ad una cosa, se la gente si fida delle opinioni dei blogger e le consulta per scelte d'acquisto, cosa succederà quando tutta la costruzione di un business, non nelle componenti economiche e finanziare subito, ma identitarie saranno realizzate dal basso?
Questo è un passaggio chiave: dallo storytelling marketing, l'impiego delle esperienze degli utenti, andremo all' UNC Brand Marketing. La N è il cambiamento fondamentale e riguarda ora un'avanguardia composta da leader ed early adopter, che oramai è in possesso dei codici di narrazione, soprattutto social ed audiovisivi. Quindi User Narrowcoder Content. Saranno loro i nuovi protagonisti non solo della rete ma dei processi di costruzione dei brand. Se i blogger sono stati la prima generazione di Narrowcoder, ora avanza una proposta molto più importante.

Narrowmarketing


Partiamo da un presupposto, per alcuni acquisito, per altri ancora ragionevole e per il resto quasi sacrilego: noi siamo le piattaforme, noi siamo i social media, noi siamo le conversazioni. Se per un giorno, ma anche una sola ora nessuno dei 500 milioni di utenti pubblicasse e condividesse nè un link nè una notizia su Facebook, o su Twitter, cosa succederebbe? Il più grande sciopero mai realizzato porterebbe le aziende a capire una cosa fondamentale: siamo disposti a rinunciare alla grafica, ai giochi, ma non alla partecipazione.
La disciplina che si occupa di questo processo di costruzione del brand dal bass si può denominare narrowmarketing. La narrazione, antica quanto il mondo, diventa nuovamente centrale. Perchè in questo processo avremo bisogno di un linguaggio comune che possa trasmettere la conoscenza e la prassi, che possa stimolare le dinamiche psico-sociali che si apriranno. Ci sono già esempi di questo tipo, penso a quello che Fiat per la nuova 500, o quello che fa Starbucks con i suoi utenti. Ma bisogna fare uno step successivo. Riassumere tutte le tendenze alla personalizzazione e alla considivisione per poi convogliarle in saperi comuni. Saperi che diventino pratiche per tutti e che in maniera wiki vengano consolidate e migliorate. Questa apertura non è la morte del capitale, forse è l'inizio di un antidoto proprio alle fluttuazioni e alle crisi dell'economia finanziaria, soprattutto presuppone uno spostamento dell'asse del controllo da chi ha in mano il capitale agli utenti. Ma perchè chi ha in mano le risorse dovrebbe aprirsi? Oggi i brand sono investiti di responsabilità che prima non avevano, sono visti come una nuova funzione all'interno del corpus sociale. La crisi del post '900 ha lasciato le macerie delle vecchie agenzie di socializzazione, un posto che, volenti o nolenti, nel bene e nel male, è stato preso dai brand. Basti pensare ai Lovemarks. Se i marchi sono così investiti di relazioni, di processi e sensibilità, ne consegue che hanno superato la loro fase di rappresentanza di un ciclo produttivo. I brand sono degli utenti, nonostante le aziende possano rivendicare la propria intellettuale. Il caso della comunicazione Nestlè è un esempio lampante. Le azioni di boicottaggio, che hanno seguito alla chiusura di comunicazione della multinazionale alimentare, in seguito ad accuse di sfruttamento eccessivo ed in maniera poco etica del territorio africano, hanno procurato un calo di fatturato di quasi due punti percentuali. Chi può permettarselo oggi? Nessuno. I brand sopravviveranno se si diventeranno identità open, identità partecipate.

Open Bran o Brand Partecipati


Gli Open Brand, o Brand Partecipati, sono un'altra frontiera, che porterà la rivoluzione della rete ad uno step successivo. Un processo che non vedrà gli utenti solo come profili di social media, ma protagonisti anche dell'economia. Sarà un processo graduale, ma allo stesso tempo chi deciderà di aprirsi non potrà tornare indietro, pena la sua esclusione. Certamente si commetteranno degli errori, ma se saranno condivisi, saranno compresi e corretti. Chi non parteciperà a questo processo di innovazione potrebbe addirittura trovarsi fuori dal gioco. Il racconto dei brand diventerà patrimonio comune e non solo in mano ai consigli di amministrazione, il che potrebbe portare allo sviluppo di nuove forme di proprietà, ma sono scenari in cui ancora preferisco non avventurarmi. Quello che sappiamo oggi però è che il rispetto, l'etica e la trasparenza, saranno i driver dello sviluppo prossimo futuro, specialmente nell'economia. Occorre che cresca un nuova coscienza da parte degli utenti, che non restino passivi e che comprendono il loro potenziale. Occorre anche che le aziende comprendano il passaggio in corso ed instaurino un rapporto dialogico, di sharing decisionale con i loro utenti. Essendo un processo garduale potremmo iniziare anche adesso, proprio in questo momento. Faccio un esempio. Il caso Wikileaks è esploso, Paypal ha deciso di bloccare l'account per la ricezione dei fondi che sostengono il sito Wikileaks, anche Amazon ha deciso di oscurare il sito. Ora mettiamo che io sono un'influecer di community e annuncio che d'ora in poi chiuderò il mio account Paypal e mi rivolgerò ad un operatore che sostiene i principi che propugna anche Wikileaks. Dal mio blog e dai miei profili social parte la notizia. Ma non mi basta. Decido di fare una campagna, con pochissimi mezzi ma crea viralità. La lancio sul blog, su FB, Twitter e Youtube. La campagna si diffonde e ben presto nel mondo raduno diecimila persone, sapete che possiamo arrivare a molto di più. Siamo a 10.000 persone che mediamente fanno transare circa 100 € all'anno sui loro account Paypal, ma potrebbe essere anche un player dell'industria tecnologica, una telco, o un fornitore di energia, allora la spesa sarebbe molto più alta. Siamo almeno ad 1.000.000 di €. Secondo voi quanto ci vorrà perchè un'altra azienda, che magari ha già empatia con i tempi dell'etica, della trasparenza e della libertà della rete, mi contatti e mi dica:"Ok, venite con noi"? Siamo così passati da una pratica ostile come il boicottaggio ad un sistema in cui il potere collettiva ingaggia una proposta verso un altro player. Questo è un primo passo di Open Brand o Bottom-up Brand, la capacità degli utenti non solo di influenzare i processi di consumo, ma di costruzione delle nuove identità economiche.

2 commenti:

  1. Caro Simone quello che tu dici è vero e si sta realizzando provocando già degli scossoni nel mondo dei media. Infatti sempre meno persone guardano la televisione per internet proprio per quella possibilità di bottom-up di cui tu parli. Per non parlare dellle chiusure dei Blockbuster a favore dei negozi digitali di musica. Più andremo avanti più la rete modificherà l'economia ma non sparirà del tutto il mondo fisico solo che adesso ha un concorrnete che in passato non aveva. Il mondo digitale rispetto a quello fisico ha più abbondanza, crea più nicchie, è un'economia dove però gira poco reddito ma più reputazione (tranne per e-bay, amazon e altri grandi)il domani sarà come monetizzare il mondo digitale.

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  2. Secondo me non è uno scontro fra mondo fisico vs mondo digitale, anche se concordo su molti punti del tuo commento. Credo che quello che dovrebbero essere discusso è il concetto stesso di monetizzazione.

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