venerdì 31 dicembre 2010

Paolo Iabichino - Il futuro è tornato

Io lavoro con le parole, mi occupo di pubblicità e sono spesso chiamato a intravedere scenari prossimi e venturi per quanto riguarda un mestiere vieppiù sotto scacco, che molti si ostinano a vedere in via di estinzione. Ma non è il futuro dell'advertising che m'interessa adesso.

Non credo di sapere quale sarà il nuovo media eletto a panacea di tutti i mali. Non ho certezze da esibire e non credo che il mio Invertising possa aiutare in questa circostanza...

Mi piace invece che si torni a parlare di futuro. Quando mi hanno invitato a scrivere per questa iniziativa ho apprezzato che qualcuno ricominciasse a interrogarsi sul domani, perché, senza che ce ne accorgessimo, ce l'hanno scippato silenziosamente. Fino a qualche tempo fa il domani aveva il fascino dell'accadimento, il carisma dell'ignoto. Poi sono arrivati i futurologi, i guru, la cultura digitale che ha accelerato il corso della storia, avvicinandoci repentinamente a tutto quello che incontravamo sui libri di fantascienza o di fantapolitica...

E abbiamo come abdicato a quella splendida desinenza che evoca l'immaginazione. Dov'è finita la letteratura fantascientifica? Chi si ricorda l'ultima volta che ha provato a immaginare il futuro? Perché l'innovazione è finita dentro un Ministero, invece che restare nei paraggi della creatività? Perché le nuove idee si chiamano start up e nessuno ha più il coraggio di veder fallire un'intuizione?

Questo blog mi riconcilia con l'immaginazione, perché leggo autorevoli autori - scusate il bisticcio, ma è cosa rara inciampare su combinazioni di parole così felici - cimentarsi con riflessioni che spostano in avanti di settimane e mesi i propri orizzonti, interrogandosi sugli avvenimenti usando i verbi al futuro e al condizionale.

Il titolo di questo post è preso a prestito dalla campagna a cui sto lavorando in queste ore insieme all'amico Riccardo Luna, direttore di Wired Italia. Lui sta curando una mostra sul futuro che durerà 9 mesi, a Torino, a partire da Marzo 2011. Come può una mostra sul futuro durare nove mesi? Sembra un ossimoro, una contraddizione in termini, eppure è questo che la rende così affascinante e che mi ha fatto scrivere "Il futuro è tornato".

Perché c'è un'intenzione che non è solo culturale, ma è finalmente politica. A riappropriarsi delle tante storie di chi sta provando a ricucire questo Paese. 150 idee, progetti e visioni, come gli anni che nel 2011 celebreranno l'Unità di quest'Italia, appunto, da ricucire. Per chi ancora crede che la politica non sia solo quel rito mefitico che si consuma nei palazzi del governo, ma sia qualcosa di quotidiano che appartiene a ciascuno di noi e che senta forte l'urgenza di interrogarsi sul futuro, anziché ripiegarsi solo e soltanto sul presente.

Il futuro è tornato significa tornare a immaginare il domani di tutti ed essere costretti inesorabilmente a volerlo migliore del nostro presente. Proiettarsi in avanti vuol dire occuparsi del proprio metro quadrato, come disse Marco Paolini in uno splendido monologo dall'Ilva di Taranto, per fare un po' di "manutenzione". Senza occuparsi dei macroscenari planetari, ciascuno nel suo piccolo, migliorando il suo quotidiano a beneficio del futuro di tutti.

Il futuro è tornato mi sembra la migliore visione per fotografare gli scenari digitali del prossimo anno, perché vuol dire salutare di nuovo la fantasia, l'immaginazione e la creatività che ci servono per affrontare i giorni che verranno. Fuori e dentro la Rete.

Paolo Iabichino

Nato nel 1969, è direttore creativo in Ogilvy. 
Docente di un master post laurea di advertising presso la Scuola Politecnica di Design
Paolo Iabichino è anche collaboratore di Nòva24 de Il Sole 24 Ore e autore di Invertising, 
un saggio che analizza le trasformazioni in atto nel mondo dell’advertising.

mercoledì 29 dicembre 2010

Susanna Legrenzi - The Soma Age


Il passaggio dei Dieci? Dalla prospettiva  “ombelicale” di chi scrive ha più o meno coinciso con la conclusione di una lunga, esclusiva parentesi professionale nella carta stampata e il desiderio di "fare" altro. Il mondo corre verso altre direzioni, sbiadiscono i sogni dei vent’anni, frantumate le utopie, resta il sapore dolce/amaro di una sorta di allucinogeno. Quel genio (belga e) folle di Carsten Holler, c/o Hamburger Bahnhof di Berlino proprio sul volgere dell’anno, l’ha chiamato Soma. Soma è la leggendaria bevanda dei nomadi Vedici che, nel secondo millennio a C, migrano dalla Siberia all’India. Se ragionassimo per visioni potremmo immaginare Soma Vs Rete. La migrazione è ancora in atto e i contorni, tra Nord e Sud del Mondo, punti di partenza e approdi, non sono meglio definiti. Holler ha chiuso in un recinto un numero x di renne; noi, che usufruiamo sempre meno dell'esperienza retinica diretta, alla fine un po' gli assomigliamo, stretti tra il mondo e un “riassunto del” che qualcuno continua a fare per noi. Visto in questa chiave, il Digital divide non è solo un’urgenza socio-culturale o una questione di sopravvivenza professionale che (ci) obbliga a riparametrare obiettivi e aspettative senza avere orizzonti certi. Digital Divide è quasi una “stanza di compensazione”. I nativi digitali hanno un’altra età (anagrafica) e una costruzione completamente diversa dei “saperi”: la metrica da verticale è diventata orizzontale, etc etc... Non occorrono i numeri del sorpasso dei social Vs www, basta l’osservatorio privilegiato di una docenza post-liceale per scoprire che la Internet non è la Babele di informazioni che speravamo ma un grande bar-sport dove - se prima non impari a cercare Dickens negli scaffali di casa (o della biblioteca di quartiere) - non troverai mai nulla (di buono?) per il semplice fatto che non vuoi (sai) cercare. Meglio, peggio, chissà? Se ieri la sete di conoscenza rispondeva a un unico motore - la domanda di curiosità (+ salvifica cultura del dubbio) - oggi c’è Google con tutta la sua potenza muscolare ma mancano, forse, nuove keywords per esplorare il presente e interrogare il futuro. Siamo tutti (dove il tutti sta per noi-40enni-più-1-meno-1) cresciuti credendo che il mondo avesse pochi confini, fosse globale, raggiungibile in un clic. Era ed è vero. O forse no. Nell'Italia della rete lenta e per pochi - in attesa che diventi per tutti - nella stagione di passaggio tra i Dieci e il Venti, se apri una srl, senza aver vinto un win-for-life o incantato un incubatore generoso, scopri facilmente che la grande crisi della finanza internazionale impone di pensare con scale prossime al chilometro zero ed economie da homo faber che mirano all'(auto)sussistenza. Il 2011? Non credo porterà chiarezza. Semmai aggiungerà complessità. Lo scenario è approssimativo come approssimativo è il mondo. La rete né in qualche modo uno specchio distonico dove alto/basso, vero/verosimile convivono, a volte confondendosi. Se torno a pensare in termini d’informazione, il “Soma” del momento è una sorta di paradosso. C’era una volta il giornalismo; poi è arrivata la pubblicità e con la pubblicità il marketing... L’universo dell'open source al momento non sostituisce in termini di redditività né l’una, né l’altro. Non so se i giornali di carta sopravviveranno. La questione - trascurando il piacere personale dello sfoglio - mi appassiona poco. Non mi interessa il media, mi interessano processo, metodo e contenuti. La carta li ha sempre (più o meno) remunerati, il web per ora è solo una promessa. In questa prospettiva, Citizien journalism sarà journalism solo quando produrrà reddito per chi lo pratica. E le recenti diatribe all'HuffPo sembrano confermarlo. Se procedessimo ancora per paradossi per un Assange che dovrà scrivere un’autobiografia per “sostenere” Wikileaks (cause connesse a...) c’era un Buzzati che scriveva di Deserti e Tartari con un editore che pensava al resto. Certo, altri tempi, altro secolo... L’allucinogeno non ha ancora esaurito il suo effetto. Affidare l’informazione allo logica di una rete affidata agli asdsense e alla micro-parcellizazione della professione non credo porterà comunque lontani. Dalla Siberia all'India, il viaggio è lungo. Nel mio piccolo, per ora ho solo deciso di mettermi in marcia. Il resto, come si diceva una volta, è un grande boh. La sfida (forse) è imparare a conviverci.

Susanna Legrenzi vive e lavora a Milano. Giornalista professionista, 42 anni, laurea in legge, negli ultimi 13 anni ha lavorato a Io donna/Corriere delle Sera come caporedattore arte e design. Da circa 18 mesi è free lance per scelta. Quando non scrive per la carta stampata, cura big ben zine, insegna in Naba a Milano, organizza mostre di design, segue jpeggy, si fa molte domande (dandosi poche risposte certe).

domenica 26 dicembre 2010

Elisabetta Gola – Didatticamente modificati: cyberprof, cyberlearners, cyberschools

Lo aspettiamo ormai da diversi anni. Chissà se il 2011 sarà quello buono. Cosa aspettiamo? Che chi si occupa della formazione di migliaia di giovani menti risalga finalmente la china del digital divide e li raggiunga per riuscire a parlare con loro. E non solo per parlare di tecnologia, ma di tutto.

La tecnologia, da quando nel 400 a.C. circa veniva chiamata tékne, ha sempre avuto una storia di rapporti complicati con la teoria (e anche con la pratica). Il digital divide è solo una riedizione contemporanea di un vecchio problema. Per tornare a tempi più recenti, prima del digital divide c’erano le due culture (quella umanistica e quella scientifica): questi due sdoppiamenti, tra loro legati, sono entrambi pericolosi, perché nel tentativo di salvare una realtà a scapito dell’altra di solito diminuiscono le possibilità di sopravvivenza di entrambe.
Questa premessa per dire che, nella sovrabbondanza di canali di comunicazione e di notizie a disposizione, quello che manca davvero è la capacità di gestirle entrambe. Quello che spero accada nel panorama tecnologico del 2011 e che aumentino i prof. 2.0, una tecnologia naturale di base altamente sofisticata ma che può migliorare tantissimo il modello originale grazie ad un upgrade anche minimo nelle possibilità di uso di internet, webcam, forum, software per la predisposizione di audiovisivi e materiali didattici, ebook e -per i modelli più avanzati- ambienti virtuali, serious game, realtà aumentata.
Questi strumenti sono già abbondantemente integrati nei sistemi digitali che accompagnano le nostre vite quotidiane, mentre tenerli lontani dalle scuole è considerato un obiettivo da perseguire a tutti i costi a salvaguardia della nostra cultura. L’effetto collaterale negativo di questo atteggiamento ideologico si ritorce sull’obiettivo cercato, rappresentando un impoverimento delle possibilità di diffusione della cultura stessa e di quell’atteggiamento di ricerca che dovrebbe invece permearci tutti quando cerchiamo di comprendere e comunicare la ‘realtà’. Poiché la conoscenza oggi passa in grandissima parte attraverso la comunicazione via web, non poterne fruire diventa una nuova forma di discriminazione, consolidata da chi si fa scudo dietro l’alibi del non-volere-contaminazioni-della-cultura-con-la-tecnica.L’esito che abbiamo sotto gli occhi è che sinora, nell'ambito della formazione, si sono impossessati della tecnologia solo coloro che prevedono in questo settore forti possibilità di sviluppo in termini di mercato. Mentre la maggioranza delle istituzioni della formazione utilizza linguaggi e strumenti inadeguati.
Chi in didattica ha percorso strade diverse ed è ricorso alla tecnologia e all’innovazione, ha portato in auge volta per volta blog, slides, forum, laboratori (spesso da guardare ma non toccare), e più recentemente piattaforme come moodle, file podcast, reti social media.
Cosa potrebbe offrirci di nuovo o di diverso il 2011? La mia previsione è che, in ambito scolastico, spinti da una mera illusione cognitiva, si diffonderanno le "LIM", lavagne multimediali interattive, computer dalla forma di lavagna, ma con la stessa complessità di un normale computer. La mia paura è che tale diffusione si limiti all’introduzione di un nuovo ‘oggetto’ in classe, che potrebbe –per ammissione degli stessi ideatori delle LIM- trasformarsi in un supporto di cartelloni e post-it. Per questo il prof. 2.0 è indispensabile!
L’auspicio è che qualunque strumento hardware si adotti, si diffonda nella pratica un ricorso intelligente a internet e alle videoconferenze, magari -ma questa suona proprio come una richiesta allo spirito del Natale- tramite un sistema integrato hardware e software a basso costo, cognitivamente ergonomico, che faciliti la vita a tutti gli studenti e insegnanti del mondo: potersi rivolgere direttamente a un esperto, creare reti di persone portatrici di conoscenze di alto livello, mediati da insegnanti-tutor che siano capaci di muoversi in tele rete e far vivere l’aula. Questo consentirebbe di condividere le conoscenze di alto livello degli specialisti, ridurre l’inevitabile decadimento che l’informazione subisce viaggiando sui canali tradizionali per le troppe mediazioni tra mittente e destinatario.
Diversamente da altri strumenti asincroni, come i materiali multimediali preconfezionati, la videoconferenza salvaguarda il contatto e sincronizza i tempi di produzione e ascolto, facilitando la comprensione. Diversamente da altri strumenti interattivi, come quelli che fanno uso principalmente della scrittura, consente la trasmissione di un contenuto denso, carico del potere espressivo della comunicazione parlata. Consente di aumentare le competenze linguistiche, abbattendo le distanze che impediscono l’avvicinamento di comunità di studio appartenenti a diverse popolazioni e a diverse culture.
Sarà l’esperienza di lavoro e di vita maturata in un’isola, che nel 2011 dovrebbe avviare per tutte le scuole della Sardegna il progetto Scuola digitale, ma mi auguro che un uso e un investimento corretto nella tecnologia possa portare alla riduzione delle distanze tra centro e periferia, in una scuola d’eccellenza per tutti gli interessati.

Elisabetta Gola è presidente del corso di laurea in Scienze della comunicazione, erogato online dall'università degli studi di Cagliari, dove insegna Teoria dei linguaggi e della comunicazione. I suoi interessi di ricerca vertono sull'intelligenza artificiale applicata al linguaggio, con una predilezione per gli usi non letterali, e più recentemente le sue riflessioni sono approdate a considerare l'impatto delle tecnologie nell'apprendimento.

venerdì 17 dicembre 2010

Layla Pavone - L'anno che precede la fine del mondo e della pubblicita' cosi' come l'abbiamo pensata da sempre

Sara' un anno, il 2011, che ricorderemo? O la tanto preannunciata fine del mondo ci impedira' di archiviare la memoria di quello che, io credo, sara' uno degli anni piu' interessanti nella storia della comunicazione ed in particolare della pubblicita'?
Comunque vada, contando anche sulle rassicurazioni della Nasa che smentisce scientificamente le previsioni nefaste del popolo Maya :-), il prossimo anno sara' certamente costellato da ulteriori innovazioni oltre che dal consolidamento di alcuni fenomeni che stanno rivoluzionando il mondo della comunicazione, ma prima ancora naturalmente della societa'.
Dopo circa 15 anni dall'avvento di Internet in Italia (nel senso di strumento di informazione, relazione e comunicazione di massa) e nonostante gli ostacoli relativi alla mancanza di investimenti in infrastruttura tecnologica e piu' in generale nell'innovazione, le aziende utilizzeranno l'online come la prima piattaforma di comunicazione attorno alla quale far ruotare tutti i processi aziendali. La grande rivoluzione sara' proprio la tecnologia che, quando si parla di marketing e advertising non e' un concetto cosi' banale. Chiedo scusa a coloro i quali masticano tecnologia tutti i giorni poiche' potrebbero davvero giudicare scontato il mio pensiero ma, essendo una "figura ponte" da questo punto di vista (sono "un'internettara" ma anche una "pubblicitaria", avendo avuto la fortuna di essere avanguardia della contaminazione attuale che, pero', 15 anni fa -credetemi- mi faceva passare per un'illusa visionaria) posso serenamente sostenere come la business technology sia stata, fino a non molto tempo fa, quanto di piu' distante per molti marketing manager.
La frammentazione delle audience e la moltiplicazione dell'offerta di contenuti multimediali ha rimesso completamente in discussione 50 anni di regole e paradigmi che, seppur condivisi dall'industria pubblicitaria, nel corso degli ultimi anni si erano allontanati dai reali bisogni dei consumatori diventando obsoleti e sempre meno efficaci.
La tecnologia rivoluzionera' sia la pianificazione pubblicitaria ovvero il media sia la creativita'. L'utilizzo degli algoritmi sara' la base di partenza nei prossimi anni per le pianificazioni online ed anche offline (ovvero su quei mezzi tradizionali che via via si stanno digitalizzando) per poter raggiungere le audience in logica "behavioral" e "re-targeting". Il 2011 sara' l'anno del vero kick-off.
Senza nulla togliere alle ricerche su base campionaria ed anche quelle su base censuaria (vedi Audiweb)che indubbiamente hanno contribuito a rendere piu' confidentigli investitori pubblicitari nelle loro decisioni di inserire internet nel media-mix, sempre piu' all'orizzonte intravedo un futuro che consentira' di intercettare e coinvolgere gli utenti online, gli individui,non tanto per i comportamenti online dichiarati, attraverso le indagini CAPI o CATI, o registrati attraverso i meter, quanto per quelli che in tempo reale verranno tracciati e analizzati dai software, attraverso i cookie, strumento basilare per offrire un'advertising sempre piu' rilevante e coerente rispetto ai comportamenti e a bisogni degli utenti.
Stringhe di testo, codici, dati che vengono registrati e analizzati dai software di pianificazione saranno determinanti per poter offrire messaggi pubblicitari "customizzati" e, presumibilmente, graditi agli utenti e per ricontattarli con precisione nel tempo con offerte su misura.
Tutto questo grazie anche ad una rinnovata capacita' di fare creativita' online che necessariamente dovra' essere "empowered by technology".
Anche il ruolo delle agenzie quindi via via cambiera' ed anche delle relative figure professionali che saranno sempre piu' connotate da una parte da competenze matematico-statistiche e dall'altra umanistico-psicologiche e artistiche.
Dall'altra parte i social-media hanno anch'essi rivoluzionato e sempre piu' rivoluzioneranno il marketing e l'advertising rimettendo in discussione il valore delle marche, e dei prodotti, ormai determinato e condizionato dalle conversazioni fra le persone, restituendo un valore concreto al concetto di "time to market". Gia' oggi conta molto di piu' un giudizio negativo di qualche utente "influencer" postato su un social-network e "viralizzato" dai suoi amici in tempo reale che 800 Grps's televisivi quotidiani. Domani le scelte di marketing saranno guidate dalla capacita' di ascoltare i bisogni ed i sogni degli individui che ne determineranno le strategie. Una "supply chain up side down" che influenzera' totalmente le scelte di produzione di beni e servizi delle aziende. Un'economia basata non tanto sulla persuasione delle aziende nei confronti dei consumatori per indurli all'acquisto di determinati prodotti e servizi quanto sulla dissuasione da parte dei consumatori nei confronti delle aziende a produrre beni materiali e immateriali che non siano il frutto delle loro scelte consapevoli e condivise.

giovedì 16 dicembre 2010

Macri Puricelli - Dopo Wikileaks. Il giornalismo partecipativo e l' impegno contro il divario digitale

I giornali di carta forse spariranno. O piuttosto troveranno nuove convergenze fra carta, web e multimedia.

Ciò che di sicuro non scomparirà nel 2011 sarà il giornalismo partecipativo
, quel citizien journalism che è molto cresciuto nell'ultimo biennio e la cui potenza è diventata chiara a tutti a fine 2010 con la pubblicazione di documenti riservati da parte di Wikileaks.

Un caso inedito nella storia della stampa: 800 giornalisti non professionisti hanno trasformato questo sito in una fabbrica di scoop. Spiazzando la stampa mondiale. E aprendo al strada alla condivisione delle competenze rispetto alle informazioni.

Ma lo scontro cui abbiamo assistito attorno a Wikileaks e Julian Assange, con le questioni che solleva dal punto di vista dell'informazione, ha basi lontane nel tempo. E' lo sviluppo clamoroso delle prime realtà di web attivismo nel giornalismo.

Uno sviluppo avvenuto nell'ultimo decennio anche grazie alla crescita altrettanto clamorosa della Rete, sia dal punto di vista tecnologico che di utilizzo di massa in cui le politiche dell'accesso (sia di infrastruttura che di alfabetizzazione) giocano un ruolo primario.

Sono le basi di un nuovo giornalismo attraverso la Rete cresciuto alla fine degli anni Novanta con esperienze note come Indymedia o PeaceReporter. Ampliate all'inizio del nuovo millennio con il Citizien Journalism di avventure come Agora Vox e YouReporter. O anche legate al giornalismo tradizionale come IReport della Cnn.

Nel 2011, e negli anni che verranno, il giornalismo d'inchiesta e quello investigativo (anche di carta) potranno trovare nuova forza e nuovi supporti (la Rete, il web, i Social network) sui quali basare le proprie fortune. E nuove forme di collaborazione di cui Wikileaks è solo la straordinaria punta di un iceberg.

Il concetto “liberariamo l'informazione”, nato non certo nelle redazioni, sta travolgend il giornalismo e tutto il mondo dell'informazione. Ma è il presupposto necessario e benvenuto a nuove forme di collaborazione fra chi sta dentro e chi sta fuori delle redazioni. Per il bene dell'informazione.

Nel 2011 non sarà più rinviabile la partita fra giornalisti “tradizionali” e cittadini-testimoni-reporter sul campo Non si potrà evitare di fare i conti con la massa di informazione (buona, cattiva, seria,falsa, documentale) che i cittadini riescono a pubblicare in rete e a diffondere in modo virale attraverso social network e piattaforme blog evolute.

Ma ciò, rileva un'analisi del NiemanLab, è possibile solo pensando storicamente al percorso intrapreso dal giornalismo digitale negli ultimi dieci anni. Un decennio in cui la maggior parte dei giornalisti italiani ha fatto finta di non vedere. Bisognerà comprendere il modo in cui hacker e tecnocrati possono oggi plasmare e indirizzare il flusso di informazioni che arriva ogni giorno sul nostro pc.

Nel 2011, molto più di oggi, quando si cercheranno notizie attraverso un motore di ricerca quelle che arriveranno dalle testate giornalistiche e quelle dei blog avranno pari dignità agli occhi di un lettore.

Soprattutto se esperienze nuove di giornalismo partecipativo in cui giornalisti e cittadini lavorano insieme per un obiettivo comune, un'informazione trasparente e sincera (vedi La Valigia Blu e le manifestazioni romane del 14 dicembre 2010) riusciranno a filtrare, mediare, controllare le fonti, organizzare i contenuti anche attraverso database, infografiche, ipertesti, informazioni georeferenziate. Rendendo più facile il percorso del lettore. Perché sempre di più sarà il lettore a decidere a chi credere. A scegliere dove e come leggere.

Per questa ragione appare sempre più improrogabile un'azione pubblica (ma sarà difficile che ciò avvenga, e non solo per questioni economiche) sull'alfabetizzazione culturale e tecnologica a Internet.

Se non saranno Comuni, Province e Regioni a farsene carico, ci si aspetta un maggiore impegno sul territorio almeno da realtà pubblico-private che sulla tecnologia vivono, come i Parchi scientifici. O da soggetti totalmente privati.

Nel 2011 sarà ancora più chiaro come il divario digitale di oggi (e parlo solo nell'Italia) ponga le basi non solo di nuove povertà, ma anche di monopolio di flusso informativo sia in entrata (chi pubblica informazioni e contenuti) sia in uscita (chi riesce a trovare queste informazioni e utilizzarle).

Sul fronte della stampa, sarà il momento giusto per lavorare con chi sta fuori. Per condividere competenze. Per recuperare notizie dalla Rete. Per produrre informazione di qualità in collaborazione e condivisione con la comunità.

E' quella che Benoit Raphael , co-fondatore del Post francese, chiama la “redazione sociale”. Una nuova avventura per i giornalisti, se ci crederanno e ci investiranno.

Ma, nel 2011 in Italia, la differenza tra un blogger e un giornalista della carta stampata sarà la stessa di oggi: il secondo sarà un professionista pagato e il primo no.

mercoledì 15 dicembre 2010

Elìa Bellussi – Informatica e robotica. Ambiente ed uomo.

La storia è un’ottima insegnante per poter capire il futuro, ma va studiata con attenzione, tanto più che essa, da sola, non basta per comprendere appieno il mondo ed il suo probabile sviluppo. Ad essa, per forza di cose, vanno unite la sociologia, la psicologia, l’economia, l’antropologia.

Resto, comunque, sempre molto critico sulle previsioni degli sviluppi futuri della società e, quindi, anche delle tecnologie da essa adoperate, pertanto non me la sento di affermare con certezza, né ipotizzare, quale, secondo me, potrebbe essere il campo o la tecnologia che sarà predominante nel 2011. Posso solo affermare quali, secondo me, dovrebbero essere i campi sui quali si dovrebbe puntare, od almeno, porre maggiore attenzione.

In quest’epoca d’evoluzione delle tecnologie dei media, passando dalla carta stampata alla “carta digitale” sugli e-book o dalle radio e televisione analogiche, passando per le trasmissioni via web, alle radio e televisione digitali (per cui si prospetta che un utente possa interagire), i campi nei quali si sta facendo passi da gigante sono quelli meno visibili ma che influenzano la qualità della vita di tutti i giorni, ancor di più delle evoluzioni nel campo della comunicazione mediatica.

In quest’epoca di cambiamenti climatici più o meno evidenti, di disastri ambientali e problematiche legate al territorio; in quest’epoca, in cui la ricerca medica e biologica sta plasmando le tecniche di cura, la ricerca nel campo della robotica si sta orientando sempre più verso quella branca della stessa che è definita “di servizio”.

Se, limitandoci all’Italia, da un lato abbiamo il polo scientifico, aerospaziale e robotico di Torino, formato dall’Università, dal Politecnico e dalle molte aziende del settore, dall’altro c’è la ricerca per quanto concerne la robotica e l’informatica nel campo della medicina e della biologia.

Tramite la ricerca nel campo dell’aerospaziale, si può fornire un supporto (a parte l’ambito militare) nella difesa del territorio e nella sicurezza. Non è da dimenticare, infatti, lo studio sui droni (già usati, tra l’altro, anche dalla protezione civile), i quali permettono di poter vedere, senza essere fisicamente presenti, lo stato di un territorio. Esempio pratico ne è il progetto SMAT-F1, progetto europeo per lo sviluppo di droni unmanned.

Non è poi da dimenticare, l’enorme impegno che si sta portando avanti, anche in collaborazione con l’ESA e con la NASA, per quanto riguarda lo sviluppo di rover per l’esplorazione spaziale. Gli stessi studi che vengono applicati allo sviluppo di droni per la sicurezza, come, ad esempio, quelli per disarmare probabili ordigni esplosivi.

Tramite la ricerca nel campo della bioinformatica e nella robotica di servizio in campo medicale, si stanno compiendo enormi passi in avanti per quanto riguarda la telemedicina, la ricerca di cure, lo sviluppo di sistemi intelligenti per la diagnosi, la prognosi e l’anamnesi, la microchirurgia, l’assistenza agli anziani ed ai disabili (in quest’ultimo caso si sta cercando di creare dei sistemi robotici che, in tutt’uno con il sistema domotico, possano occuparsi delle problematiche che influenzano la vita dell’utente).

L’utilizzo di sistemi touchscreen o remoti, vedi telecomandi, rende assolutamente più semplice ed intuitivo il controllo degli apparati e si sta puntando ad uno sviluppo ancora più radicale. Di poco tempo fa la notizia che uno studente ha sviluppato un software in grado di scrivere in base alle onde elettromagnetiche celebrali, emesse dall’utente del sistema apposito.

Da qui allo sviluppo di un telecomando che non necessiti di essere manipolato, la strada sarà ancora lunga ma certamente è evidente come si cerchi di sviluppare tecnologie che rendano più comoda la vita.

Ma non ci si deve limitare a questo. Se da un lato si cerca di sviluppare tecnologie che semplifichino la vita, così da non poter essere presenti, per poter interagire, dall’altro, sempre più archivi e musei puntano ad una vetrina più ricca e completa, sul web, così da rendere fruibile ad un pubblico sempre maggiore le loro collezioni, oppure, sempre più aziende, centri di ricerca, università puntano al recupero di tutto quel materiale digitale archiviato in supporti oramai obsoleti, cercando di salvaguardarlo per poterlo riutilizzare.

Si cerca, quindi, di poter recuperare tutto quel sapere che rischia di essere perduto e di divulgarlo o di renderlo nuovamente fruibile, da una parte, ai “visitatori”, dall’altra agli addetti.

La via è segnata; sarà il 2011 od un anno successivo, in cui troveranno sbocco queste nuove tecnologie, questo non posso certamente dirlo, ma si sta puntando sulla semplificazione estrema dell’interazione e sulla salvaguardia del capitale culturale. Due visioni che ad una prima occhiata sono diametralmente opposte ma che, per forza di cose, corrono di pari passo.

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Studente d’Informatica presso l’Università degli Studi di Torino. Appassionato d’Intelligenza Artificiale e Storia dell’Informatica, ha partecipato come staff a svariati portali per la traduzione dall’inglese di notizie tecniche e comunicati stampa legati al mondo dell’informatica. Creatore di un sito web che funge da archivio, con fini di divulgazione, inerente la Storia dell’Informatica. Sempre dell’argomento ha scritto anche per Piscopo Editore.

Luca Mascaro - un futuro di servizi vicini alla tua vita

Nella storia dell'uomo i pensatori e i progettisti hanno sempre cercato di intravvedere e definire il futuro attraverso racconti, sogni e visioni che il più delle volte non si sono rivelate realistiche nel breve termine ma più in uno spazio di qualche anno o decennio.

Questo piccolo preambolo mi serve per sottolineare che quanto sto per andare a scrivere su queste pagine da progettista probabilmente non sarà ciò che si concretizzerà in massa nel 2011 ma piuttosto sarà un fenomeno che terrà occupata la mente di molte menti nel mondo intero.

Dire cosa avverrà nel 2011 è abbastanza facile in quanto le tendenze di innovazione negli ultimi tre anni sono state abbastanza lineari: si parlerà sempre più di mobilità, sempre più di life streaming e di un parallelismo sincrono tra la vita reale e la vita virtuale; cose che oramai conosciamo e viviamo quotidianamente.

È da queste ovvietà che voglio partire per dire cosa invece sta iniziando a girare sempre più nella mente degli ideatori e dei progettisti con cui mi confronto quotidianamente vale a dire la realizzazione di un concetto molto semplice: avvicinare i prodotti e i servizi digitali ad un piano fisico per migliorare la vita quoditiana delle persone attraverso una serie di esperienza aumentate.

La domanda ora è chiaramente: di cosa stiamo parlando concretamente?

I prodotti e i servizi digitali (in particolare questi ultimi) negli ultimi anni dopo aver corso lungo i concetti della socialità hanno scoperto la possibilità di prendere una connotazione geografica per cui, specialmente in mobilità, si è iniziato a posizionare l'utilizzo dei servizi presso un luogo (per capirci: dalle news locali all'elenco dei tuoi amici nei dintorni) e questo lo vediamo quotidianamente nelle applicazioni installate nei nostri cellulari.

Chi però nello scorso biennio si è occupato di definizione di servizi si è reso conto di un fattore ulteriore alla sola localizzazione spaziale vale a dire la localizzazione temporale. Oggi siamo capaci di sapere chi usa un determinato servizio, in un determinato luogo, in un determinato tempo (un po' come per il concetto degli spime di Sterling) il che di conseguenza ci permettere di assumere in quale contesto di vita una persona si muove.

Questo in termini pratici ha permesso la concretizzazione dei servizi locali e iperlocali come Yelp che all'ora di pranzo in un certo luogo ti possono suggerire automaticamente un ristorante vicino con posti liberi ed il suo menù del giorno (che probabilmente sarà allineato ai tuoi gusti).

Così, i servizi iniziano già oggi ad essere uno strumento che ci migliora e ci semplifica le piccole cose che facciamo nella nostra vita, dandoci un ritorno di valore reale e riportandoci a scoprire un mondo fisico che vale sicuramente la pena di essere scoperto e esplorato.

Questa realtà si concretizzerà sempre più nel 2011 ma c'è chi, come me, pensa già di andare oltre.

Infatti oggi questo sistema funziona perchè un'utente scopre il servizio, si interessa, lo sceglie, lo adotta e attivamente si interessa all'uso (ad esempio il fare check-in su foursquare); ma il passo successivo che si stà immaginando sarà una totale trasparenza nell'adozione attraverso la fisicizzazione dei servizi attraverso gli oggetti connessi e la loro integrazione con l'architettura degli edifici e la strutturazione delle città.

In Giappone infatti città come Tokyo stanno strutturando delle logiche di servizi digitali urbani (ad esempio all'interno della metropolitana JR) che aumentino l'esperienza quotidiana migliorandola o ancora si stanno edificando strutture con una altissima densità di connessioni digitali e sensori di input/output che permetteranno ai progettisti di concepire servizi nativamente integrati all'interno degli spazi vivibili.

Insomma, sicuramente nel futuro 2011 saremo in mobilità, probabilmente ci muoveremo su prodotti e servizi con scopi sempre più locali, ma parleremo di come cambieranno le nostre città quando il mondo digitale e il mondo fisico saranno sovrapposti creando delle città sensibili.

martedì 14 dicembre 2010

Mauro Rubin - Estendere i nostri sensi nel mondo reale

Negli ultimi 5 anni si sono sviluppati nuovi modelli di collaborazione sociale, sono stati aperti mercati e canali di comunicazione all’avanguardia.

Gli smartphone (e le tariffe flat delle Telco) ci permettono di mostrare la nostra posizione in ogni momento (foursquare.com), i nostri gusti e interessi (facebook.com / twitter.com) e immagini divita quotidiana (flickr.com / Youtube.com). Reperire e condividere informazioni è diventato semplice e alla portata di tutti (wikipedia.org).

I media si sono evoluti così velocemente che il mondo non è riuscito a metabolizzare il loro cambiamento. E’ stata sufficiente l’introduzione di un’applicazione che fornisse la lettura di “giornali digitali” per sconvolgere il settore dell’editoria (aumentando però la diffusione dei tablet).

Il mondo della politica (quella italiana in primis) fa quotidianamente i conti con i contenuti multimediali (blog, video, podcast etc...) che tracciano le scelte, le opinioni perfino la vita di ogni rappresentante di partito, e suscitano la reazione immediata dell’ opinione pubblica. Ci sono addirittura esempi di liste civiche con programmi elettorali creati collettivamente attraverso la rete.

Recentemente abbiamo anche assistito ad un evento che ha fatto tremare i governi: la pubblicazione sulla rete (wikiLeaks) di informazioni riservate. Quando leggi i rapporti dei servizi segreti USA sul tuo iPhone non puoi fare a meno di realizzare che il mondo è cambiato.

Come diceva Derrick de Kerckhove, padre della teoria della coscienza collettiva "II computer è una psico-tecnologia, ossia un'estensione del nostro pensiero che si esterna attraverso il linguaggio, estensione della nostra mente".

Abbiamo esteso il nostro pensiero attraverso una rete collettiva mondiale. Ma non si tratta di un punto di arrivo, bensì di qualcosa di rivoluzionario: l’estensione dei nostri sensi e delle nostre percezioni nel mondo reale, attraverso quello digitale.

Ci sono poi i limiti fisici e l’estetica.

Fino a qualche hanno fa un uomo senza gambe poteva correre solo su una sedia a rotelle. Poi sono arrivati Pistorius che ha dimostrato il contrario, e Wired che ha realizzato una copertina con Aimee Mullins. Un bel ritratto e nessun imbarazzo per un’estetica perfetta.

E il futuro?

La diffusione di sensori e droni collegati in rete ci permetteranno di unire la realtà e i mondi digitali. Il futuro della Internet degli oggetti è, e sarà ancora di più, strettamente connesso alla realtà aumentata. Tra pochi mesi potremo ottenere informazioni su tutto ciò che ci circonda grazie a nuove tecnologie emergenti.

Potremo per esempio guidare un drone usando come console degli occhiali e le nostre mani. Lo sopra le cascate del Niagara e con i suoi sensori (olfattivi e visivi) garantiràl’esperienza di una guida immersiva in piena regola.

Aumenteremo la nostra capacità di apprendimento attraverso simulazioni che operano grazie al binomio vincente realtà/oggetti virtuali interattivi . Essere in un luogo non precluderà la possibilità di interagire con oggetti che sono fisicamente in un altro.

Dopo la condivisione del sapere avremo la possibilità di aprire l’utilizzo degli oggetti a esperienze open source.


lunedì 13 dicembre 2010

Francesco Gavello - Quale futuro per i blog?

Durante l’ultimo lustro più volte la rete si è chiesta quando fosse ora di decretare la consueta morte dei blog.

Giusto dopo qualche mese di vita, liquidandoli a semplici esperimenti di nuova editoria.

Durante la loro crescita, riducendoli a interesse di pochi e degni di un’attenzione che andava via via scemando.


Durante la loro esplosione e maturità, condannandoli perentoriamente a morte certa, inflitta questa dai più scattanti social network e dai servizi di microblogging.

Non stupisce quindi che, concluso un altro anno, si guardi al futuro cercando di decifrare, se non la morte (ipotesi quantomeno scontata, ormai) almeno qualche segnale della loro prossima ...evoluzione.

Quale futuro per i blog, insomma?

Domandarsi quale sorte attenda i blog (e il bloggare, in senso più ampio) è un po’ come chiedersi che fine faranno ...i siti web. O la rete stessa.

Mi spiego.

“Blog” è, come mi piace ripetere, solo una parola.
Ciò che conta, davvero, è l’idea alle spalle.



Ovvero un mezzo per trasportare idee, valori e in modo più ampio ...contenuti.
Già, contenuti. Il cuore del discorso in questo caso è la distribuzione dei contenuti.

Come evolveranno durante i prossimi mesi i mezzi in grado di diffondere contenuti? E quanto di ciò che già conosciamo questi mezzi si lasceranno alle spalle perché non più indispensabile?

I blog sono stati (e sono ancora, per molti versi) ottimi mezzi per distribuire contenuti.

Sono stati, nei loro primi anni di vita, ottime basi su cui sviluppare reti di contenuti e relazioni. Per portare intorno a sé persone con le quali scambiare informazioni ristrette a precise nicchie, ottenere feedback, costruire una reputazione.

Con il passare degli anni, i social network hanno insidiato sempre più da vicino questa capacità di costruire reputazione, proponendo delle soluzioni preconfezionate dalla minima soglia di ingresso.

E nel tempo, i social network hanno reso queste dinamiche sempre più trasparenti, immediate, intuitive per chi, di pianificare e costruire un blog per ottenere lo stesso risultato, non ne aveva per nulla intenzione.

E mentre il numero di blog sembra ancora salire a fine 2010, a molti sembra paradossalmente di vedere meno attività sulla blogosfera rispetto anche solo a 6-12 mesi fa.

Perché oggi la gente cerca lavoro sui social, trova clienti sui social, riceve e dona consigli sui social. Tutto è immediato, rapido e facilmente accessibile. Molto più immediato, rapido e accessibile di quanto lo sarebbe su un blog.

I social network sono i nuovi veicoli della reputazione. Reputazione che lavora su una rete di contatti molto più vasta e disponibile allo scambio di quanto potrebbe fare quella di un singolo blog.

Ma non per questo, nel 2011 mi aspetto la morte dei blog, né un qualche ripido declino in termini numerici o di effettiva attività.

I blog perderanno forse parte del loro appeal tra i nuovi arrivati, in alcuni casi in mera immediatezza e praticità. Si vedranno contaminare sempre più da derive a là “social sharing” dove già i Like Button di Facebook e le condivisioni di Twitter e LinkedIn stanno spianando la strada. E trarranno vantaggio da queste contaminazioni per portare in casa alcune delle peculiarità degli stessi social.

Rimarranno però ancora per parecchio tempo la "casa sicura" per aziende e brand. Un luogo dove non dipendere da padroni di casa a volte fin troppo abili nel girare la frittata o rivoluzionare i loro approcci. Un luogo dove poter pianificare strategie, diffondere i propri contenuti e promuovere la propria reputazione marcando chiaramente il ruolo dei social come utili (certamente utili) strumenti.

Perché i blog, dopotutto, sono nati per sopperire una serie di necessità.
I social network, beh, anch'essi sono arrivati a sopperire delle necessità.

Ma solo alcune di queste erano comuni tra loro. Esiste (e resiste) un panorama decisamente interessante per chi si vorrà avventurare ancora nel 2011 nel mondo del blogging.

immagine: iStockPhoto

Note sull’autore

Francesco Gavello è consulente web & social media coach. Torinese, 28 anni, scrive di blogging, marketing e promozione in rete su www.francescogavello.it. In una sola frase? Aiuta le aziende e i liberi professionisti ad ottenere successo e visibilità in rete.

domenica 12 dicembre 2010

Alessandro Nasini - Il valore sarà nelle nicchie

Dopo l'ubriacatura di Facebook - botte di vino da poco nella quale volenti o nolenti siamo caduti tutti, consapevoli e ignari, addetti ai lavori e semplici passanti - torneremo a scegliere con cura la bottiglia buona e bere con moderazione e consapevolezza.



Torneremo, ma in realtà stiamo già tornando da qualche tempo, a quei confortevoli ambienti poco affollati, pochi simili con interessi omogenei o pochi aspiranti a gruppi e caste ben definite. Continueremo a buttare un occhio a Facebook - quello attuale, il prossimo o quello dopo ancora - così come continueremo a cercare i luoghi affollati per curiosità o per paura di perderci il social network del secolo, ma sempre con minore frequenza, partecipazione, entusiasmo ed affezione.



Piano piano, mese dopo mese, riprenderemo a cercare il forum specializzato sul pizzo a tombolo, il club dei fuoristradisti monomarca (forse addirittura monomodello), il club per quelli che guidano solo moto rosse e quelli che mangiano solo sushi, anzi no, solo sahimi e solo di tonno. Torneremo insomma alle nicchie (verticali e orizzontali) e la somma delle nicchie supererà in volume e (soprattutto) in valore la massa dei network generalisti. Che se ci pensate, Internet serve alle nicchie per trovarsi e riconoscersi: le masse si trovano e si riconoscono già allo stadio o nelle piazze.



Di questa evoluzione si accorgeranno e migreranno prima gli utenti più smaliziati, poi quelli che si fanno trainare dal "... ho trovato un posto dove..." detto dall'amico, poi lo capiranno i media. Per ultime - buone ultime come di regola - se ne accorgeranno le aziende. E allora inizierà l'età d'oro dei contenuti di qualità, dei budget segmentati, del branding mirato, del marketing one-to-one e di molte altre cose che magari vi racconterò in una prossima occasione.

sabato 11 dicembre 2010

Jacopo Famularo - Smarphones: passato e presente... e futuro?


Musica, schermi High Definition, film, fotografie ad alta densità di pixel e videogames: chi se lo sarebbe mai aspettato?

A questo punto ci si potrebbe chiedere se siano ancora capaci di telefonare...

Brevemente si potrebbe ricondurre la storia dei nostri fidi e inseparabili telefoni cellulari partendo dal loro boom, attorno alla fine degli anni ’90, quando iniziarono ad essere presenti nelle tasche dei più, facendo scemare l’idea che li rendeva accessibili solo ai business men.

Insomma, verso gli inizi del XXI secolo, il mondo della telefonia, piccole eccezioni a parte, era ancora in una forma fetale che, a distanza di pochi anni avrebbe dato vita ad una vera e propria egemonia di mercato.


Se dunque molti di noi conoscono pochi dei centinaia di dispositivi disponibili oggi sui banchi espositori dei vari centri commerciali, non molto più di dieci anni fa i più possedevano lo stesso telefono o comunque un modello che non distava molto dal primo e che assumeva una forma molto caratteristica, tanto da farlo soprannominare, tra i più giovani, il “mattone”.

Se però in quel momento molti possedevano lo stesso telefono per questioni di scarsità di scelta, non si può dire lo stesso per quanto riguarda l’amatissimo Nokia 3310!

Ebbene, esso fu uno dei dispositivi più venduti al mondo, sia per il prezzo abbastanza accessibile, sia per la semplicità d’uso e L’ESPERIENZA UTENTE che regalava.

Innovativo, semplice, simpatico, esteticamente bello e anche utilizzabile per svagarsi, il Nokia 3310 fu il primo telefono veramente innovativo, con i suoi testi sms, la sveglia e i servizi operatore, e, perchè no, uno schermo veramente ampio per gli standard del tempo.

Il fratello minore di questo dispositivo implementò inoltre la navigazione Wap, dando la possibilità agli utenti, di poter navigare in versioni adattare dei siti Web direttamente dal proprio telefonino.


A mio modesto parere, poi, le evoluzioni più importanti hanno trovato sempre luogo nella casa finlandese, dove appunto furono introdotti schermi a colori, tastiere slide, fotocamere “prestanti”, ma soprattutto Symbian OS!

Lui fu il vero protagonista degli anni compresi tra il 2002 e il 2007!

Questo sistema operativo fu implementato nel dispositivi Nokia ancora prima dell’acquisizione della Symbian da parte della società e donò un notevole vantaggio alla casa rispetto alla concorrenza, che ancora montava sistemi operativi semplici e poco prestanti.

Con il nuovo Symbian, invece, si poteva navigare sul Wap con un’interfaccia gradevole, si potevano scorrere foto e video girati con il proprio telefono in modo molto gradevole, con una specie di Cover Flow e si potevano installare sul proprio dispositivo applicazioni di terzi.

Questa fu la nascita del telefono cellulare per come lo intendiamo noi oggi: un dispositivo mobile grazie al quale possiamo dimenticare agende, appunti, postit e altro a favore della comodità di qualche click!


Parallelamente, però, solo poche altre case cercavano di ostacolare il monopolio Nokia, che con la s60 prima e la N Series poi, guadagnava terreno su tutte le altre case contendenti: Blackberry e Palm.

Esse montavano già dei sistemi operativi più avanzati rispetto agli altri e, nel particolare, Palm montava una versione di Windows creata ad hoc: Windows Mobile!

Se però gli innumerevoli modelli di telefoni continuavano a susseguirsi, si arrivò, attorno alla fine del 2006 ad un periodo di stallo, durante il quale il mercato non sapeva più bene cosa proporre: ormai era stata implementata la videochiamata, si poteva vedere la televisione e si potevano scrivere email, nonchè navigare con una certa comodità sul web.


Così, a giugno del 2007 fece il suo ingresso sul mercato statunitense colui che sembra aver cambiato le sorti della telefonia: iPhone!

Sebbene le sue caratteristiche fossero molto discutibili (io stesso ero scettico riguardo a quello che poi sarebbe diventato il sostituto del mio fido Nokia n95), negli Stati Uniti ci fu un vero boom per il nuovo arrivato in casa Apple!

E’ iniziata una vera tendenza, che ha causato la nascita di veri e propri business paralleli al prodotto!

iPhone, inizialmente disponibile solo negli USA, fu dopo poco sbloccato da un hacker italiano, volenteroso di possedere un telefono marchiato dalla casa di Cupertino. Questo piccolo e insignificante dettaglio fu l’inizio di un circolo vizioso che ancora oggi spinge decine di hacker nella loro lotta contro la “chiusura” di iOS.

Dicevamo che, sebbene le caratteristiche di iPhone fossero discutibili, fu proprio il sistema operativo che esso montava a renderlo uno dei prodotti più amati al mondo!

In questo scarno antenato del famoso iOS 4, erano presenti poche applicazioni, non se ne potevano installare altre oltre a quelle presenti di default e il dispositivo era (teoricamente) utilizzabile solo negli Stati Uniti. Un bel problema per Apple! Se non fosse che appunto, hacker molto in gamba, diedero vita ad un vero e proprio AppStore chiamato Installer!

Installer era in sostanza un piccolo programmino che era possibile installare tramite il jailbreak, ovvero la modifica di alcuni file di sistema che rendeva possibile l’installazione di applicazioni di terzi su quello che era un prodotto destinato quasi ed esclusivamente a imprenditori e affaristi.

Invece Installer prima e Cydia poi (dal firmware 2.0) diedero la possibilità, tramite dei piccoli tools, alla gente di personalizzare il proprio iPhone come desideravano: sbloccando il bluetooth, rendendo possibile la registrazione di video su iPhone 2G, ecc.

Così nel giugno 2008 Apple presentò il nuovo iPhone 3G, con modulo 3G, assente nel primo modello, e AppStore, l’innovazione dell’anno che introdusse la possibilità di creare applicazioni e giochi da poter rivendere in questo mercato elettronico.


Facciamo però un passo indietro: a fine 2007 fu presentato un altro grande sistema operativo per telefonia mobile: Android!

Questo OS, presentato da Google, fu inizialmente sviluppato da una casa, per l’appunto Android Inc., in seguito acquisita da Google stessa.

Il nuovo sistema operativo mobile di Google, a differenza di quello di Apple, è però presente in molti dispositivi, di marche e caratteristiche differenti, il che fa dubitare molti delle sue capacità, paragonandolo al sistema operativo Windows di Microsoft.

Se dunque Android inizialmente non sembrava offrire grandi possibilità, così come quello che poi assumerà il nome di iOS, ecco che con l’avvento di Froyo, la versione 2.0, esso sembra aver raggiunto una maturità simile a quella di iOS 2.x.

A favore di Android sicuramente troviamo la libertà: una caratteristica a cui qualcuno proprio non sa rinunciare! Questo sistema operativo rende possibile all’incirca quello che vogliamo: quello che basta fare è sviluppare un’applicazione apposita o un tool per rendere realtà la nostra idea.

Il vero boom di Android è dunque avvenuto nel corso del 2009 e nel 2010, quando è stato implementato anche in tablet del calibro del Samsung Galaxy Tab, un sensazionale Tablet da 7” che permette di telefonare, ascoltare musica, scattare foto e molto altro, tutto in un solo dispositivo.


Se però per Android e iOS sembra andare tutto così bene, dall’avvento di iPhone, Symbian ha visto calare le sue quote poichè i sistemi operativi creati per i dispositivi Nokia avevano perso l’intuitività e la semplicità di un tempo.

Lo stesso è accaduto per Windows Mobile, trascurato a causa nel più innovativo e migliore Android, che con la versione Gingerbread (3.0) sembra imporre ancora più fiducia in quelle case che vogliono adottarlo come sistema operativo.

Microsoft non si è però data per persa e sta portando avanti un nuovo progetto, che ha visto il lancio sul mercato del nuovo Windows Phone 7, con grafica completamente rinnovata e che punta molto al design.

Devo dire che sinceramente non trovo, però, questo sistema operativo molto intuitivo e facile quanto Android e l’ormai amatissimo iOS, nella sua versione 4.x.


Mettendo a confronto questi sistemi operativi mobili, si notano lacune e pregi in ognuno: chi necessita della funzione copia/incolla, chi presume che qualcuno necessiti di imporre meno regole sull’accettazione delle applicazioni nel proprio store, e chi, invece, deve semplicemente cercare una caratteristica propria caratterizzante (scusate il gioco di parole).

Sono però presenti tutti i presupposti per un futuro durante il quale il telefono cellulare, e lo smartphone in particolare, non sarà più semplicemente uno strumento dedito alla semplice telefonata, bensì un compagno che, tramite servizi quali il cloud computing, sistemi operativi avanzati e un tocco di innovazione, tenderà ad essere sempre più indispensabile in un mondo nel quale tutto spinge verso internet e verso la condivisione veloce.

giovedì 9 dicembre 2010

Adriano Parracciani - un 2011 QuRioso


La domanda posta è: quali scenari digitali prenderanno forma il prossimo anno? Non essendo sicuro della risposta ho fatto un giretto con la DeLorean dalle parti del 2011, ed ora che sono appena tornato dal futuro prossimo posso raccontarvi cosa ho visto. Anzi, mi soffermerò in particolare su una delle cosedigitali venute a galla: i codici QR

In quel 2011, nelle librerie iniziavano a vedersi i primi book-e, libri cartacei che grazie ai codici QR permettono di accedere a contenuti digitali dal proprio cellulare. Si inquadra, si scatta, si accede ad internet e si visiona il contenuto multimediale

Ho visto una ragazza comprare il giro del mondo in ottanta giorni di Jules Verne, si è seduta al bar ed ha iniziato a leggerlo; dopo qualche pagina l'ho vista prendere lo smartphone, inquadrare un piccolo codice stampato di fianco al testo, scattare l'immagine e godersi un breve video che illustrava i luoghi del viaggio di Phileas Fogg e Passepartout.

Ho notato che molti manifesti pubblicitari sparsi per la città avevano inclusi questi codici QR, a volte anche di grandi dimensioni, e non poche persone si fermavano per scattarli con il cellulare. Una di loro ha esultato perché dopo lo scan del QR aveva ricevuto un buono sconto del 15%.
Dall'altro lato della strada un signore fermo all'edicola stava scattando un QR per scaricare sul cellulare i nuovi sudoku della settimana.
Nei quotidiani molte pagine riportavano questi codici bidimensionali a fianco degli articoli e potevi vedere sempre più persone intente a fare lo scanning per accedere al contenuto.
Un ristorante aveva messo all'entrata un codice QR che dava il menù del giorno aggiornato con tanto di prezzo; e in alcuni cinema era possibile prenotare scattando un QR stampato sulla locandina. Nelle catene di distribuzione era possibile avere informazioni aggiuntive su alcuni prodotti, tra cui i commenti degli utenti o le recensioni tecniche di specialisti.

Insomma in quel 2011 i QR iniziavano a diffondersi a macchia d'olio un po' ovunque.

Torniamo al presente. I codici QR benché tecnologia matura nel settore del tracciamento delle merci (soprattutto nel sol levante), potrebbero riprendere nuova vita e nuova sostanza in molti altri settori ad esempio come interfaccia di comunicazione per il marketing, o nei sistemi di infotainment, nei role games, e nei mobile payment. Sono gia tantissimi i casi applicativi in questi settorei dove l’uso seppur pioneristico dei QR si sta diffondendo.
Si va dalle campagne pubblicitarie di grandi marchi del lusso e del beverage, ai sistemi di prenotazione di videogiochi o di ingressi al cinema. La catena di caffetterie Starbucks, ad esempio, sta adottando un sistema di pagamento basato su un QR caricato sul proprio cellulare; in questo modo si evita ache di dover stampare ticket o fidelity card.

Nel settore dell’education l’uso di questi codici potrebbe abilitare e agevolare modalità di accesso alla conoscenza non solo più innovative ma anche più accattivanti soprattutto per i più giovani. Si pensi ad esempio a manuali, guide e libri di testo che permettano di accedere a filmati, interviste, mappe, a contenuti multimediali dinamici tra cui anche quelli prodotti dagli studenti stessi (gli UGC di cui ha parlato Emanuela Zaccone).

L’integrazione tra il cartaceo ed il digitale è sicuramente un motore fondamentale per il successo di questi codici, anche perché rappresenta una diversa idea di evoluzione del libro, che oltre a quella degli ebook potrebbe avere un suo valore ed un suo impatto nel breve-medio periodo.
Ma non ci si ferma all'integrazione cartaceo-digitale. Altrettanto importante è l’uso che di questi codici se ne può fare ad esempio nelle città, nei parchi pubblici. Come è stato fatto a New York con il progetto Turning New York's Central park in an interactive board games dove è possibile vivere i parchi cittadini in nuova esperienza ludica-culturale interattiva. I parkcodes sono sparsi qua e la per i sentieri e per i luoghi del parco, e permettono di accedere a contenuti aggiuntivi; ad esempio vedere la scena di un film girata nello stesso luogo dove ci si trova, oppure ascoltare un concerto realizzato il mese precedente, o magari vedere com'era quella particolare inquadratura cento anni prima. E poi storie, aneddoti, dati storici, approfondimenti sulla flora e sulla fauna, senza sistemi elettronici da installare e manutenere.

Questi codici bidimensionali da cui sta nascendo anche una nuova forma di arte, rappresentano un sistema a basso costo per l'introduzione della realtà aumentata, portando elementi digitali aggiuntivi alla nostra esperienza analogica quotidiana
I codici QR possono essere facili abilitatori dei processi di narrowmarketing di cui parla Simone Corami, cogliendo a pieno il paradigma di questa invisibile rivoluzione antropologica che sta creando il web. La narrazione è il nuovo quanto antico modello di accesso alla conoscenza ed alla socialità che si sta affermando, e l'uso diffuso ma intelligente dei QR lo può appunto facilitare.

Allora, i QR avranno successo? Forse si, perché la tecnologia è a basso costo è si basa sul semplice uso del sistema di comunicazione più diffuso al mondo: il cellulare.
Ma potrebbero anche non avere alcun successo se non utilizzati a dovere e non divulgati a dovere. Come sta accadendo su alcune riviste, o si alcuni libri che riportano dei codici praticamente illeggibili. Se queste tecnologie non funzionano subito quando vengono introdotte, sono velocemente abbandonate, e non perché inapplicabili ma per mancanza di capacità, di professionalità e di competenza da parte di coloro che se ne dotano in maniera superficiale.

In conclusione, nel viaggio dentro il 2011 ho visto un affermarsi dei codici QR che incominciavano a vedersi un po’ ovunque. Attenzione però: sapete che la DeLorean ogni tanto ha dei problemi con il flusso canalizzatore e quindi potrei anche essere finito in un 2011 parallelo.

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Antonio Pavolini - Il futuro di quella che chiamavamo, semplicemente, televisione

Nessun tema come "il futuro della TV" ha visto accavallarsi, negli anni, le opinioni delle figure professionali più disparate. Tutti hanno una idea, più o meno "informata", su dove andrà a parare "la televisione" (perchè ancora viene chiamata così): tecnologi, futurologi, massmediologi, socio-antropologi, attori, autori, conduttori televisivi, produttori di hardware, pubblicitari. Il problema di fondo è che per "televisione" ognuno intende una cosa diversa, quindi tutti possono parlare di tutto: dei "canali", dei "programmi", dei "televisori" in una grande rosticceria delle opinioni in cui ricorrono, puntualmente, alcuni miti come "il digitale", "l'interattività" e persino "le tre dimensioni".

Per quello che è il mio lavoro, penso di potermi collocare al di fuori da questo dibattito, perchè le domande che mi vengono normalmente poste prescindono da questi diversi approcci, e richiedono una risposta molto laica: "ci sono soldi nella 'nuova televisione'? se sì, quando arrivano? e dove saranno?". Bene, nel 2011 la risposta è molto semplice: soldi nella "nuova tv" - quella per intenderci che porta l'infinita ricchezza di contenuti del Web sullo schermo del salotto, superando le catene di distribuzione e i modelli di business attuali - non ce ne sono. Lo dicono i report e le previsioni dei principali analisti, e non v'è motivo di dubitarne.

Ma questa risposta apparentemente lapidaria nasconde varie sfumature. Intanto, anche se soldi a breve non se ne vedranno, in questa partita è opportuno che inizino a investire seriamente (e vedremo poi il perchè) i vari attori in gioco:
  • i broadcasters tradizionali, spinti dalla necessità di rispondere ai nuovi trend di fruizione degli utenti, anche per diversificare la loro offerta
  • i produttori di elettronica di consumo, per i quali la "net-enabled tv" rappresenta una notevole leva commerciale
  • gli operatori Over The Top-TV, che sono i principali portatori della nuova cultura di fruizione, e della potenzialmente infinita diversificazione dei contenuti
  • gli operatori di telecomunicazioni, che possono mettere in campo alcuni asset preziosi e difficilmente duplicabili per la distribuzione e la monetizzazione di questi nuovi contenuti
Nel 2011 una fascia finalmente significativa di utenti, non necessariamente per loro scelta, ma perchè si ritroveranno questi nuovi contenuti, in un modo o nell'altro, sulla TV di casa, avranno un primo impatto con questa nuova esperienza televisiva, che non solo moltiplica a dismisura i contenuti (YouTube sulla TV, solo per citare l'applicazione più popolare, sarà dato per scontato) ma ne permette una fruizione nel rispetto dei tempi e delle modalità decise dal fruitore.

Nel frattempo la tv tradizionale, lineare e vincolata dai palinsesti, non morirà affatto, ma dovrà iniziare a ragionare sul proprio ruolo "a tendere", che potrebbe essere quello di concentrarsi sugli eventi televisivi "aggreganti", vale a dire quelli che sono fruiti in modo condiviso e simultaneo, sia offline - ossia nell'ambiente domestico - sia online - ossia commentati in rete in tempo reale.

Nel nuovo ecosistema televisivo "Net-enabled", invece, diventando i contenuti una risorsa infinita, sarà l'attenzione la vera risorsa scarsa sulla quale si concentrerà l'acme della battaglia. E a quel punto leve come la qualità dell'immagine, la continuità del servizio e l'efficacia della User Experience attraverso i vari device saranno punti di vantaggio per chi saprà garantirli.

Inoltre sarà fondamentale saper cavalcare i trend di fruizione: non solo il passaggio dalla visione "Lean Forward" tipica del computer al "Lean Back" governato dal divano, ma anche l'importanza della leva della condivisione con gli amici: le persone non solo amano segnalare i contenuti più interessanti alla loro cerchia di conoscenza, ma amano anche fruire qualcosa di segnalato da un loro amico, che poi diventa un ulteriore argomento di conversazione e quindi di socialità.

Il mito della potenza dei motori di ricerca in questo ambito si sta rapidamente sgretolando. E non solo perchè tali motori di ricerca richiedono una continua interazione, nemica della fruizione rilassata. Ma soprattutto perchè nulla come la capacità di selezionare nell'"internet sea", tipica di una vera e propria redazione centralizzata (si veda a tal proposito il successo degli "staff picks" di Vimeo) o decentrata (le raccomandazioni dei friends) può davvero andare incontro ai nostri interessi: sapere cosa è il "Meglio per Tutti", il "Meglio per un certo tipo di persone", e infine cosa è "Meglio per Me". Il piacere, dunque, di imbattersi in questa personalizzazione spinta, finendo sorpresi dall'intelligenza dell'applicazione. Proprio come già accade - con profitto - nel mondo della musica grazie a servizi come Last.Fm, che imparano dai nostri "like" e dai nostri "skip".

Ma torniamo alla domanda iniziale: perchè, dato che i soldi nel 2011, e per qualche altro anno ancora, in questa nuova TV non ci sono, gli attori sopra menzionati dovrebbero compiere seri investimenti nell'assecondare questi trend e fornire fin da subito la migliore esperienza utente possibile? La risposta è semplice: perchè come molti altri "internet businesses" anche quello della Web TV sullo schermo del salotto potrebbe rivelarsi una di quelle killer application in cui c'è un solo vincitore. Qualcuno come Google in grado di monetizzare subito nel modo pià semplice (con AdSense, per esempio). Oppure un produttore Hardware come Apple capace di ritagliare un pezzo dell'"Internet Sea", e precisamente quello che non crea problemi d'uso per l'utente finale (Apple TV). Oppure un soggetto "Over The Top" integrale come Blip.tv, libero di riaggregare tutto ciò che è presente in rete facendo leva sulla creatività distribuita dei content owner indipendenti spinta alle estreme conseguenze, e pronto a remunerarla con servizi intelligenti di piattaforma. O magari un Telco, che a un certo punto potrebbe essere l'unico in grado di far funzionare tutto quanto, specie se l'esplosione del traffico video dovesse far emergere tutti i problemi tecnologici del caso.

Se solo uno vince, potrebbe essere non necessariamente perchè ha azzeccato la strategia definitiva, ma magari semplicemente perchè è stato in grado per primo di offrire sui due lati (utenti finali e content provider) una proposizione di valore sostenibile. A quel punto a questo soggetto sarebbe sufficiente occupare il centro del nuovo ecosistema e dettare le regole per tutte le altre parti in causa, e precisamente le regole che sono profittevoli soprattutto per lui. La chiave è superare il "Tipping Point", la massa critica di non ritorno. E' già successo: con iTunes, con Skype, e persino con alcuni standard del passato, non necessariamente i migliori su piazza (si pensi al VHS). E potrebbe succedere ancora.

[immagine di Isola Virtuale]

mercoledì 8 dicembre 2010

Simone Corami: Open Brand - La sfida del NarrowMarketing e le identità economiche Bottom Up


Una Rivoluzione, né un media, né un canale

Internet non è un media, non è un linguaggio e non è molto altre cose. Ma è anche tutte queste insieme. E' una rivoluzione con dimensione profonde: sociali, culturali, psicologiche e antropologiche. Ed economiche. Viviamo sulla soglia del cambio di un paradigma molto profondo, dove l'attenzione del mondo si rivolge sempre di più alla rete. Nel bene e nel male. Perchè anche i forti conservatorismi stanno puntanto sul mutamento tecnologico in atto. In realtà la sola dimensione tecnologica non riesce a spiegare questo enorme cambiamento, in atto ma ancora ben lontano dall'essere concluso.
Fondamentalmente l'attore principale di questa rivoluzione, di cui il web 2.0 è un passaggio obbligato, ma non conclusivo, è un noi. Una collettività non ordinata ma coordinata, che non si rifà alla massa come negli scenari dell'epoca televisiva, bensì ad un insieme di nodi, singolirità, gruppi, che si relazionano insieme per scambiare e condividere esperienze e creatività.
Naturalmente anche l'economia è coinvolta da questo fenomeno, il termine sharing è fortemente economico. Si finanziano startup, si scomette sulle idee, si ragiona sulla sostenibilità dei business online. Ne consegue che il marketing è estremamente rinnovato nella sue parte dedicata ai social media, ma anche in quella più tradizionale. A mio avviso però il convolgimento economico non è così innovativo come certe indicazioni sembrano rappresentare, la bolla della new-economy ne è stata una dimostrazione. Con la fine del secolo precedente siamo usciti dalla dicontomia capitalismo-socialismo, anche se si assiste ad un fenomeno di ritorno di alcune idee di comunitarismo, accelerate nella loro diffusione dalla grande crisi finanziaria. Però la maggior parte delle aziende ragionano ancora nell'ottica del capitale nella maniera più classica del termine. Nonostante le aperture all'innovazione, che non riguardano la qualità e la validità dei processi di produzione e sostenibilità, ma bensì gli strumenti che fanno aumentare il saggio di profitto, aspirazione più che legittima, sembriamo ancora chiusi in quell'antinomia.

Una strada obbligata

Eppure la strada è segnata, obbligata. Il marketing ha capito prima di tutti che l'utente è cambiato, tanto da abbandonare, almeno in pubblico, il termine consumatore. Non si tratta di puro nominalismo. Gli utenti sono più attenti e soprattutto vogliono essere parte attiva nei processi di costruzione delle identità aziendali e dei prodotti stessi. Se è vero che le aziende si orientano al mondo social e UGC, presto questa moltitudine reclamerà un diritto fondamentale: la sua sostenibilità. Non è solo una questione di remunerazione del lavoro creativo, ma di conciliare il brand, la sua awareness ed equity, la online reputation con le aspettative degli utenti. Non basterà sviluppare CRM in grado di dialogare sempre meglio, ma rispondere a determinate esigenze, standard di qualità e di responsabilità sociale di impresa. Ci saranno resistenze forti, ma gli utenti chiederanno sempre di più la partecipazione nei processi di scelta. Non basterà scrivere le user experiences, ma si dovra andare oltre. Il processo di costruzione di un brand dovrà diventare bottom up, dovrà venire dal basso. Le ricadute saranno pesanti. E le resistenze anche. Ma pensate ad una cosa, se la gente si fida delle opinioni dei blogger e le consulta per scelte d'acquisto, cosa succederà quando tutta la costruzione di un business, non nelle componenti economiche e finanziare subito, ma identitarie saranno realizzate dal basso?
Questo è un passaggio chiave: dallo storytelling marketing, l'impiego delle esperienze degli utenti, andremo all' UNC Brand Marketing. La N è il cambiamento fondamentale e riguarda ora un'avanguardia composta da leader ed early adopter, che oramai è in possesso dei codici di narrazione, soprattutto social ed audiovisivi. Quindi User Narrowcoder Content. Saranno loro i nuovi protagonisti non solo della rete ma dei processi di costruzione dei brand. Se i blogger sono stati la prima generazione di Narrowcoder, ora avanza una proposta molto più importante.

Narrowmarketing


Partiamo da un presupposto, per alcuni acquisito, per altri ancora ragionevole e per il resto quasi sacrilego: noi siamo le piattaforme, noi siamo i social media, noi siamo le conversazioni. Se per un giorno, ma anche una sola ora nessuno dei 500 milioni di utenti pubblicasse e condividesse nè un link nè una notizia su Facebook, o su Twitter, cosa succederebbe? Il più grande sciopero mai realizzato porterebbe le aziende a capire una cosa fondamentale: siamo disposti a rinunciare alla grafica, ai giochi, ma non alla partecipazione.
La disciplina che si occupa di questo processo di costruzione del brand dal bass si può denominare narrowmarketing. La narrazione, antica quanto il mondo, diventa nuovamente centrale. Perchè in questo processo avremo bisogno di un linguaggio comune che possa trasmettere la conoscenza e la prassi, che possa stimolare le dinamiche psico-sociali che si apriranno. Ci sono già esempi di questo tipo, penso a quello che Fiat per la nuova 500, o quello che fa Starbucks con i suoi utenti. Ma bisogna fare uno step successivo. Riassumere tutte le tendenze alla personalizzazione e alla considivisione per poi convogliarle in saperi comuni. Saperi che diventino pratiche per tutti e che in maniera wiki vengano consolidate e migliorate. Questa apertura non è la morte del capitale, forse è l'inizio di un antidoto proprio alle fluttuazioni e alle crisi dell'economia finanziaria, soprattutto presuppone uno spostamento dell'asse del controllo da chi ha in mano il capitale agli utenti. Ma perchè chi ha in mano le risorse dovrebbe aprirsi? Oggi i brand sono investiti di responsabilità che prima non avevano, sono visti come una nuova funzione all'interno del corpus sociale. La crisi del post '900 ha lasciato le macerie delle vecchie agenzie di socializzazione, un posto che, volenti o nolenti, nel bene e nel male, è stato preso dai brand. Basti pensare ai Lovemarks. Se i marchi sono così investiti di relazioni, di processi e sensibilità, ne consegue che hanno superato la loro fase di rappresentanza di un ciclo produttivo. I brand sono degli utenti, nonostante le aziende possano rivendicare la propria intellettuale. Il caso della comunicazione Nestlè è un esempio lampante. Le azioni di boicottaggio, che hanno seguito alla chiusura di comunicazione della multinazionale alimentare, in seguito ad accuse di sfruttamento eccessivo ed in maniera poco etica del territorio africano, hanno procurato un calo di fatturato di quasi due punti percentuali. Chi può permettarselo oggi? Nessuno. I brand sopravviveranno se si diventeranno identità open, identità partecipate.

Open Bran o Brand Partecipati


Gli Open Brand, o Brand Partecipati, sono un'altra frontiera, che porterà la rivoluzione della rete ad uno step successivo. Un processo che non vedrà gli utenti solo come profili di social media, ma protagonisti anche dell'economia. Sarà un processo graduale, ma allo stesso tempo chi deciderà di aprirsi non potrà tornare indietro, pena la sua esclusione. Certamente si commetteranno degli errori, ma se saranno condivisi, saranno compresi e corretti. Chi non parteciperà a questo processo di innovazione potrebbe addirittura trovarsi fuori dal gioco. Il racconto dei brand diventerà patrimonio comune e non solo in mano ai consigli di amministrazione, il che potrebbe portare allo sviluppo di nuove forme di proprietà, ma sono scenari in cui ancora preferisco non avventurarmi. Quello che sappiamo oggi però è che il rispetto, l'etica e la trasparenza, saranno i driver dello sviluppo prossimo futuro, specialmente nell'economia. Occorre che cresca un nuova coscienza da parte degli utenti, che non restino passivi e che comprendono il loro potenziale. Occorre anche che le aziende comprendano il passaggio in corso ed instaurino un rapporto dialogico, di sharing decisionale con i loro utenti. Essendo un processo garduale potremmo iniziare anche adesso, proprio in questo momento. Faccio un esempio. Il caso Wikileaks è esploso, Paypal ha deciso di bloccare l'account per la ricezione dei fondi che sostengono il sito Wikileaks, anche Amazon ha deciso di oscurare il sito. Ora mettiamo che io sono un'influecer di community e annuncio che d'ora in poi chiuderò il mio account Paypal e mi rivolgerò ad un operatore che sostiene i principi che propugna anche Wikileaks. Dal mio blog e dai miei profili social parte la notizia. Ma non mi basta. Decido di fare una campagna, con pochissimi mezzi ma crea viralità. La lancio sul blog, su FB, Twitter e Youtube. La campagna si diffonde e ben presto nel mondo raduno diecimila persone, sapete che possiamo arrivare a molto di più. Siamo a 10.000 persone che mediamente fanno transare circa 100 € all'anno sui loro account Paypal, ma potrebbe essere anche un player dell'industria tecnologica, una telco, o un fornitore di energia, allora la spesa sarebbe molto più alta. Siamo almeno ad 1.000.000 di €. Secondo voi quanto ci vorrà perchè un'altra azienda, che magari ha già empatia con i tempi dell'etica, della trasparenza e della libertà della rete, mi contatti e mi dica:"Ok, venite con noi"? Siamo così passati da una pratica ostile come il boicottaggio ad un sistema in cui il potere collettiva ingaggia una proposta verso un altro player. Questo è un primo passo di Open Brand o Bottom-up Brand, la capacità degli utenti non solo di influenzare i processi di consumo, ma di costruzione delle nuove identità economiche.